1.“Infelice Didone, dunque era vera la voce che eri morta, che avevi obbedito al tuo estremo destino col ferro. [...] Fermati, non sottrarti alla mia vista! Chi fuggi? Questa è l'ultima volta, per volere del Fato, che io posso parlarti”
Da’ voce tu a Didone e falle raccontare ad Enea la propria versione della storia.
2. La notizia era nell'aria: Didone ha trascinato l'ombra di Enea davanti a Minosse, il giudice degli Inferi, e vorrebbe spedire l'eroe troiano direttamente nel Tartaro come punizione per il suo vile tradimento. Immagina di dover raccontare il processo comprese arringhe e testimonianze: puoi impersonare il p.d.v. di un giornalista di cronaca giudiziaria, del giudice, dell'accusa o dell'avvocato di Enea.
3. L’amicizia è la più vera ricchezza dell'uomo. Così della storia di Eurialo e Niso e del crudele destino che lega i due eroi ci colpisce, più del coraggio, la concordia e il legame così intenso che li porta correre grossi rischi per non lasciarsi soli l’uno l’altro. Immagina di raccontare a Enea (non ti preoccupare degli anacronismi) la sorte dei due giovani compagni e rifletti: al posto loro come ti saresti comportato? Hai mai avuto la fortuna di un'amicizia simile?
Ero svenuto, ma non avevo, contuttociò, perduto ogni sentimento; non tenterò di definire, né di descrivere quel che mi rimaneva, ma, infine, non era tutto perduto. […] Finora non avevo aperto gli occhi; sentivo che ero disteso sul dorso, senza legami. Allungai la mano ed essa andò a battere su qualche cosa d’umido e di duro. La lasciai alcuni minuti in quella posizione, cercando d’indovinare in che luogo potevo essere, e che cosa ero divenuto. Ero impaziente di servirmi degli occhi, ma temevo, avevo paura della prima occhiata sugli oggetti circostanti. Non temevo di vedere cose orribili, ma piuttosto mi spaventava l’idea di non vedere nulla. Finalmente, con una pazza angoscia nel cuore, aprii vivamente gli occhi. Il mio tremendo pensiero veniva dunque ad avverarsi: il buio della notte eterna mi circondava. […] Mi sembrava che fosse passato un lungo tempo da quando era stata pronunciata la sentenza. Però, nemmeno per un istante, ebbi l’idea d’esser morto.
Un’idea simile, nonostante tutte le finzioni letterarie, è del tutto incompatibile coll’esistenza reale; ma dove mi trovavo? In quale stato? Sapevo che i condannati a morte morivano ordinariamente negli auto-da-fe. Ero io forse condannato a morir di fame in quel mondo sotterraneo e buio, o qual altra sorte, anche più tremenda, mi attendeva?
Che il risultato fosse la morte, e una morte di un’amarezza insoffribile, non potevo dubitarne, conoscendo troppo bene il carattere de’ miei giudici; quello che mi occupava e mi tormentava era il modo e l’ora.
Le mie mani tese in avanti incontrarono finalmente un ostacolo solido: un muro che pareva costruite di pietre, liscio, umido, gelato. Seguii quel muro, con quella prudente diffidenza che mi avevano ispirato certe antiche storie. Però quell’aggirarmi non era sufficiente per conoscere le dimensione del mio carcere, poiché il muro sembrava così perfettamente uniforme, che io poteva fare il giro e ritornare al punto donde ero partito senza accorgermene. […]
Quando mi svegliai, distesi un braccio e trovai un pane e una brocca d’acqua. Ero troppo privo di forze per riflettere su questa circostanza, ma bevvi e mangiai avidamente. Poco dopo ripreso il mio cammino intorno alla prigione e, non senza molta fatica, ritrovai il pezzo di stoffa. Prima di cadere, avevo contato 52 passi, ora, ripetendo il cammino, ne contai 48, prima di trovare lo straccio. In tutto erano dunque 100 passi, e calcolando una yarda ogni due passi, la segreta doveva avere un circuito di 50 yarde. Avevo però incontrato parecchi angoli del muro, e non avevo ancora la maniera di scoprire la forma del sotterraneo; imperocché non potevo fare a meno di credere che fosse un sotterraneo.
Facevo queste ricerche con grande interesse; non avevo certo alcuna speranza, ma una vaga curiosità mi spingeva a continuarle. Staccandomi dal muro, pensai di traversare la superficie circoscritta.
Mi avanzai dapprincipio con precauzione estrema, poiché il suolo, benché sembrasse fatto d’una materia dura, era traditore e sdrucciolevole. Ma in seguito mi feci coraggio e presi a camminar franco, cercando di andare più diritto che potevo. Avevo fatto dieci o dodici passi, quando il resto dell’orlo strappato del mio vestito mi si attorciglio alle gambe; lo pestai e caddi con violenza in avanti.
Nel momento della caduta, non osservai subito una circostanza non poca curiosa, che però, dopo pochi minuti, mentre ero ancora disteso, richiamò la mia attenzione.
Il mio mento toccava terra, ma le labbra e la parte superiore della testa, benché sembrassero poste ad una minore elevazione, non posavano sul suolo. Nel tempo stesso, mi sembrò che un vapore vischioso mi bagnasse la fronte, e che un odore speciale di funghi vecchi venissi a ferirmi le narici. Allungai il braccio e fremetti nello scoprire ch’ero caduto sull’orlo di un pozzo circolare, del quale, pel momento, non avevo alcun mezzo per calcolare la vastità. Tastando la muratura del margine, riuscii a smuoverne un piccolo pezzo, che lascia cader nell’abisso. Per alcuni minuti, tesi l’orecchio ai suoi rimbalzi: cadendo batteva alle pareti del pozzo e finalmente si udì un lugubre tonfo nella acqua seguito da lunghi echi. Nel medesimo tempo, udii un rumore sopra la mia testa, come d’una porta che si chiudesse subito appena aperta, mentre un debole raggio di luce traversava rapidamente l’oscurità, spegnendosi quasi nello stesso istante.
Vidi chiaramente la sorte che mi era stata preparata e mi rallegrai dell’opportuno accidenti al quale dovevo la salvezza.
Un passo ancora, e il mondo non mia avrebbe mai più riveduto.
Gridava così. Ma la spada, dentro cacciata con forza,
attraversa le costole e rompe il candido petto.
Morto Eurialo si piega, il sangue va per le membra
belle, e cade la testa inchinata su l’omero:
come un fiore purpureo, reciso dal vomere,
languisce morendo o come i papaveri piegano
il capo sul tenero stelo quando la pioggia li grava.
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La guerra non è tra buoni e cattivi: i Troiani cercano una nuova patria, gli Italici si sentono minacciati. In nessun altro punto del poema soccombono così tanti eroi giovani: se si eccettuano Volcente e i suoi due cavalieri, padri di famiglia, tutti gli altri personaggi dell'episodio vanno incontro a morte prematura, non solo Eurialo e Niso.
La gioventù che va di pari passo con l'imprudenza: i Rutuli si lasciano sopraffare dal sonno, un elmo sottratto da Eurialo ai nemici sarà all'origine della sua morte. Ma morire giovani in guerra significa anche guadagnarsi la fama eterna, e a questo provvede Virgilio che manifesta lo stesso senso di rispetto per tutti i caduti: guerrieri aristocratici come Niso, Remo e Ramnete