IL RE SUPERBO (ROMA)
C’era una volta una mercante che aveva una figlia e la sera la portava in società.
Una sera la figlia, stando in società, vide un signore che tirava fuor di tasca una tabacchiera e prendeva tabacco, e sul coperchio della tabacchiera c’era un ritratto. Era il ritratto del figlio del Re di Persia con sette veli sul viso, e la ragazza se ne innamorò.
Tornò a casa e disse a suo padre: - Papà, mi sono innamorata del figlio del Re di Persia; andatemelo a chiedere per sposo e portategli il mio ritratto.
Il figlio del Re di Persia era famoso per due cose: per quant’era bello e per quant’era superbo. Era tanto bello che per la sua bellezza esagerata non poteva essere visto da nessuno, anzi, per paura che qualcuno lo vedesse, portava sette veli sulla faccia, e stava sempre chiuso nella stanza del trono, senza parlare mai con anima viva, tranne che con sua madre.
Il mercante, quando sua figlia gli ebbe detto quello, le risposte: - Ragazza mia, è meglio che questo figlio del Re di Persia tu te lo togli dal cuore.
Ma la ragazza ormai era presa da una smania e non pensava ad altro. Cominciò a mettere in croce il padre, e tanto fece e tanto disse che il mercante, per non vederla più struggersi, decise d’andare lui in persona a trovare questo figlio del Re di Persia con sette veli sul viso, e di dirgli dell’amore di sua figlia per lui.
Lo ricevette la Regina, prese il ritratto della ragazza e andò di là a mostrarlo al figlio.
Lo vuoi vedere, figlio mio, quel ritratto?
Ditegli che lo butti nel gabinetto.
La Regina andò a riferire, e quel povero padre a supplicarla:
Ma quella povera figlia mia si strugge in lagrime!
Figlio mio, - andò a dire la madre al Re superbo, - dice che la ragazza si strugge in lagrime!
Allora dàgli questi sette fazzoletti!
Ma mia figlia s’ammazza! – disse il povero padre quando la Regina gli portò i fazzoletti.
Ha detto che s’ammazza, - fu riferito al Re superbo.
Allora dàgli questo coltello che s’ammazzi pure.
Con queste crudeli risposte, il vecchio ritornò da sua figlia. La figlia restò un po’ in silenzio, poi disse: - Padre, qui bisogna essere forti. Datemi un cavallo, una borsa di denari, e lasciatemi partire.
Ma sei matta?
Matta o non matta, voglio andare per il mondo.
Partì e andò per il mondo. Le si fece notte in mezzo alla campagna. Vide un lume. C’era una casa in cui una donna vegliava il figlio che stava per morire. La ragazza disse: - Andate a riposare; lo veglio io vostro figlio.
Mentre vegliava, le si spense il lume, e restarono tutti d’un colore. Cerca a tentoni un cerino e non lo trova.
«Bisogna provare qui intorno se c’è qualcuno che m’accende un lume ». Esce di corsa, gira intorno e laggiù vede un filo di luce. S’avvicina, e c’è una vecchia che metteva legna sotto una caldaia d’olio.
Nonna mia, mi fai accendere il lume?
Se m’aiuti, - le rispose la vecchia.
Aiuti a che?
A fare la fattura a un giovane, il figlio di quei contadini che abitano là, - e indicò la casa dove c’era quel ragazzo moribondo.
Quando quest’olio s’è consumato, il giovane è morto.
T’aiuto, - disse la ragazza, - io metto la legna e tu guarda se la caldaia bolle.
La vecchia si sporge a vedere se la caldaia bolle e la ragazza l’agguanta per gli stinchi e la caccia dentro l’olio a capofitto finché non la sentì stecchita. Poi accese il lume, spense il fuoco, e corse a casa, dove il giovanotto bell’e guarito s’alzava già dal letto. Feste, allegrezza in quella povera casa. – Ma io vi sposo! – diceva il giovanotto. – Ma no, lasciate andare, - disse lei, e il giorno dopo, carica di regali, proseguì il suo viaggio.
Arrivò in un paese e si mise a servire in una casa di moglie e marito. Il marito, poveretto, erano anni che non s’alzava dal letto, malato di non si sa qual malattia, che nessun medico capiva. Alla ragazza, stando a servizio in quella casa, cominciarono a venire sospetti sulla moglie. Cominciò a tenerla d’occhio, e una sera si nascose dietro una tenda per vedere cosa faceva di notte. Ecco che la moglie arriva, sveglia il marito, gli dà da bere una tazza d’oppio, e appena lui si addormenta, apre uno scrignetto e dice: - Venite, figlie care, su che è ora. Dallo scrigno uscirono fuori un groviglio di vipere, saltarono addosso all’addormentato e cominciarono a succhiargli il sangue. Quando le vipere furono sazie, la moglie le staccò, prese una piccola marmitta che teneva nascosta dietro un quadro, fece sputare alle vipere tutto il sangue succhiato, s’unse ben bene i capelli, ripose le vipere e disse:
Sopra l’acqua e sopra il vento,
Portami al noce di Benevento.
E sparì.
La ragazza, che fa? S’unge ben bene i capelli anche lei con quel sangue della marmitta, ripete le parole della donna, e tutt’a un tratto si trovò dentro una botte piena di streghe che ballavano e facevano sortilegi e incantesimi. Appena si fece giorno, la ragazza, per trovarsi a casa prima della padrona, pensò: « Qui bisogna trovare la controparola magica ». E provò a dire:
Sotto l’acqua e sotto il vento,
Lontan dal noce di Benevento
E di colpo si ritrovò a casa. Quando la padrona ritornò, la trovò che riposava come se non fosse successo niente.
Ma la mattina dopo la ragazza disse al padrone: - Stanotte, fate finta di bere dalla tazza che vostra moglie vi porta ma non inghiottite neanche una goccia.
Il padrone fece così e restò sveglio. Quando la moglie andò per attaccargli le vipere, saltò su e l’uccise. Non era ancora spirata che già il marito era guarito. – Come ti posso ringraziare? – disse alla ragazza. – Non andartene più via; voglio tenerti con me per sempre.
Ma lei non ne volle sapere. Si prese tutto il denaro che il padrone le diede, e si rimise in viaggio.
Cammina cammina, ecco che arrivò in un altro paese e prese alloggio in una locanda. Il padrone della locanda aveva un figlio giovanotto, che da tempo se ne stava a letto senza mangiare né bere, dormendo notte e giorno. Disse la ragazza: - Lasciate fare a me che lo guarisco.
La notte, si mise a fargli la guardia. Suonano le dieci: miete.
Suonano le undici: niente. Suona la mezzanotte, e, tunfete! Nel soffitto s’aprono due buchi, e cadono giù due fagotti, uno bianco e uno nero. Toccano terra, e il fagotto bianco diventa una bella signora, e il fagotto nero una fantesca che reggeva un vassoio con la cena. La signora diede uno schiaffetto all’addormentato e lo svegliò; poi gli apparecchiarono la tavola e cominciarono a far cena con lui come se nulla fosse. Quando si sentì cantare il gallo, la bella signora diede un altro schiaffetto al giovanotto, che subito si riaddormentò. Le due donne si raggomitolarono fino a diventare due fagotti, uno bianco e uno nero, e presero il volo per i buchi del soffitto.
A giorno, la ragazza disse ai genitori del malato: - Se volete che questo poverino vi guarisca, statemi a sentire. Dovreste fare cinque cose: primo, che tutti i galli del paese siano ammazzati; secondo, che tutte le campane siano legate; terzo che sia preparata una coperta nera con tutte le stelle ricamate sopra e sia appesa fuor della finestra; quarto, che sotto la finestra ci accendiate un falò; quinto, che teniate un muratore sul tetto, pronti per turare due buchi.
La notte dopo, le due donne-fagotto scesero nella stanza e si misero a cenare col giovane. Ogni tanto guardavano fuor della finestra, attente a vedere se schiariva, ma c’era sempre lo stellato. Aspetta e aspetta, fuori era buio, galli non se ne sentivano, galline nemmeno; le due donne-fagotto vanno alla finestra per vedere com’era che questa notte non finiva mai. Allungano una mano e vedono che quello non era il cielo ma una coperta, e la coperta cadde tutt’a un tratto scoprendo il sole già alto nel cielo. Allora tutte affannate ridiventarono fagotti e saltarono vero il soffitto. Ma il muratore intanto aveva rimesso bene tegole, travi e intonaco, e si trovarono la via sbarrata. Fanno per buttarsi dalla finestra, ma vedono il falò lì sotto. A ogni modo, scelta non ne avevano, si buttarono giù, si bruciacchiarono e scapparono via. Nella fretta, però, si erano dimenticate di suonare il solito schiaffetto al giovanotto: così lui restò sveglio, liberato dalla fattura.
I parenti corsero ad abbracciarlo pazzi dalla contentezza. – Quella ragazza! Voglio sposare quella ragazza! – fu la prima cosa che lui disse. Ma lei, cucù! era altro che aveva in testa. Ricevette un mucchio di regali anche dai locandieri e continuò il suo viaggio.
Incontrò una vecchietta. – Dove vai?
E la ragazza rispose: - Vado cercando il Re superbo.
- Senti, - disse la vecchia, - so che hai tribolato al tua parte. Eccoti questa bacchettina del comando. Chiedi quel che vuoi a lei e te lo farò. Sappi che il Re superbo sta in questo paese, _ e la vecchietta svanì. La figlia del mercante allora andò di fronte al palazzo del Re superbo, batté la bacchettina del comando per terra e disse: - Comando! Comando che subito venga su un palazzo grane come quello del Re superbo, e con finestre in numero di sette come quelle sue, ma che questo palazzo sia fatto in modiche da un capo le finestre tocchino quelle del palazzo del Re e dall’altro capo siano lontane.
E subito, di fronte al palazzo del Re ne sorse un altro, tal quale come lei aveva comandato. Era mattina e il Re superbo s’alzò e vide che in faccia al suo c’era cresciuto quel bel palazzo mai visto prima. S’affacciò e di fronte alla sua finestra c’era quella più lontana dell’altro palazzo, e affacciata c’era una ragazza tanto bella che il Re superbo, per vederla meglio, si tolse il primo dei suoi veli, e subito disse ai servitori: - Prendete i due più bei braccialetti del tesoro e portatelo a quella ragazza dirimpetto, chiedendola in sposa a nome mio.
I servitori andarono, coi braccialetti sui cuscini di velluto, a fare l’ambasciata. Ma la ragazza appena li vide rispose: - Questi braccialetti metteteveli per battenti giù al portone, che giusto ci mancano, - e li licenziò.
L’indomani la ragazza s’affacciò alla seconda finestra, e il Re superbo si levò un altro velo e s’affacciò alla seconda finestra anche lui. Poi mandò i servi a offrirle una collana di brillanti. – Questa collana, - disse lei, - mettetela come catena al cane, che lo tenete legato a una corda.
Al terzo giorno, la ragazza era alla terza finestra, e il Re superbo, senza più il terzo velo, affacciato alla terza finestra anche lui, le mandò i servitori con due orecchini di perle. – Questi orecchini, - disse lei, - metteteli come batacchi al sonaglio del cane.
Al quarto giorno, dalla quarta finestra, rispose ai servitori che portavano un prezioso scialle ricamato che lo usassero come zerbino, e al quinto giorno, poiché il Re, toltosi anche il quinto velo, le aveva mandato un anello di fidanzamento con un diamante grosso come una noce, disse che lo dessero per giocare ai bambini del portinaio.
Il sesto giorno le portarono la corona di regina. – Mettetela per treppiede sotto la pignatta.
Ma intanto erano arrivati alla settima finestra, a faccia a faccia, e il Re superbo s’era tolto dal viso l’ultimo velo, e tanto piacque alla figlia del mercante che disse: - Be’, sì che ti sposo.
E così col pane e il tozzo
Una gallina verminosa
Evviva la sposa!
LA PELLE DI PIDOCCHIO
C’era una volta un re che un giorno, mentre se n’andava a spasso lemme lemme, si trovò addosso un pidocchio. Pidocchio di re, pensò, va rispettato. E invece di spidocchiarselo via, lo tenne da conto, se lo portò alla reggia e lo mise a ingrassare. Il pidocchio divenne grasso come un gatto e stava tutto il giorno su una sedia. Poi divenne grasso come un porco e lo dovettero mettere su una poltrona. Poi divenne grasso come un vitello e lo dovettero mettere in una stalla. Ma continuava a ingrassare e neanche nella stalla ci stava più, così il re lo fece macellare. Quando fu macellato lo fece scorticare, e fece inchiodare la pelle sulla porta dl palazzo. Poi fece uscire un editto che chi avesse indovinato di che bestia era quella pelle, gli avrebbe dato sua figlia in sposa, ma chi non indovinava sarebbe stato condannato a morte.
Appena uscì l’editto, per la reggia cominciò una processione di gente che andavano per spiegar la cosa e ci rimettevano il collo. Il boia lavorava notte e giorno. La figlia del re, di nascosto dal padre, aveva un innamorato e non ebbe pace finché non riuscì a sapere, attraverso certe serve che sapevano tutto, che quella pelle era pelle di pidocchio. La sera, quando l’innamorato venne come al solito sotto la sua finestra, gli disse piano: - Domani va’ da mio padre, e digli che la pelle è di pidocchio. Quello non capiva: - Di ginocchio?
- No, di pidocchio! – disse più forte la figlia del Re.
- Di finocchio?
- Pidocchio! Pidocchio! – gridò lei.
- ah, capito! Domani ci vediamo, - e se ne andò.
Ma sotto la finestra della figlia del Re aveva il suo banchetto un ciabattino gobbo, che s’era sentito tutta la conversazione. «Ora vediamo, - si disse, - chi ti sposa: se io o quello là». E detto fatto, senza neanche levarsi la parannanza, piglia e va dal Re.
- Sacra Corona, ho l’onore di essere venuto ad indovinare la pelle che ci avete.
- Guarda d’indovinarci, - disse il Re, - perché già tanti ci hanno rimesso il collo.
- E vediamo se ce lo rimetto anch’io, - disse il gobbo. Il Re fece portare la pelle. Il gobbo la guardò bene, l’annusò, fece come se si sforzasse di pensarci su, e disse: - Sacra Corona, io ho l’onore di dirvi che questa pelle non ci vuol tanto per uno che se ne intende a capire che bestia è: è pidocchio.
Il Re ci restò di pezza a vedere come era stato svelto il gobbo; e senza fiatare, perché parola di Re è parola di Re, chiamò sua figlia e lì su due piedi la dichiarò sposa legittima del gobbo. La poverina, che era ormai scura di sposare l’indomani il suo innamorato, piombò in una disperazione senza fine.
Il gobbetto diventò Re e lei Regina. Ma a vivere con lui, le prese una malinconia da morire. Aveva con sé una vecchia cameriera che avrebbe dato un occhio pur di vederla ridere. Una mattina le disse: - Sacra Maestà, ho visto in giro pel paese tre gobbetti buffi che ballano suonano cantano e anno sganasciare dalle risa. Vuole che li faccia salire alla Reggia così si diverte un po’ anche lei?
- Ma va’, sei matta? - disse la regina. – Ci arriva a casa il Re gobbetto, li trova qui e crede che li abbiamo fatti venire per canzonare lui!
- Non se ne prenda pena, - le disse la cameriera, - se nel frattempo venisse il Re gobbetto li nascondiamo nel cassone.
Così i tre gobbetti suonatori salirono e ne fecero quante Carlo in Francia. E la Regina, dàgli a sbudellarsi dalle risa. Sul più bello, gran scampanellata: è il Re gobbetto.
La cameriera prende i tre gobbi per la collottola, li ficca nel credenzone e chiude a chiave. – Sì, vengo, vengo! – e va ad aprire dal Re. Fecero cena e dopo cena se n’andarono a passeggio.
L’indomani era il giorno di ricevimento: ai tre gobbi non ci pensavano più. Il terzo giorno la Regina fece alla cameriera: - Ma quei gobbetti, dì, dove sono andati a finire?
La cameriera si dà una mano sulla fronte. – Uh, Maestà mia! Chi se ne ricordava più! Sono ancora là nel credenzone!
Aprono subito e che ci trovano? I tre gobbetti ingrugniti, morti stecchiti di fame e di soffocazione.
- E ora? – fece la Regina, tutta spaventata.
- Niente paura, ci penso io, - e la cameriera prese uno dei gobbi e lo ficcò in un sacco. Chiamò un facchino: - Senti, in questo sacco c’è un ladro che ho ammazzato con una sberla mentre stava rubando i gioielli della Corona -. Aprì il sacco e gli fa veder la gobba. – Allora mettitelo in spalla e senza farti vedere da nessuno buttalo nel fiume. Quando torni penserò a te.
Il facchino si carica il sacco e va al fiume. E intanto quell’ anima forcuta della cameriera caccia il secondo gobbo dentro un altro sacco, e lo mette accanto alla porta. Torna il facchino per essere pagato, e la cameriera gli fa: - Come vuoi che ti paghi se il gobbo è ancora qua?
- Ma a che gioco giochiamo? - fa il facchino. – L’ho buttato nel fiume proprio ora.
E la cameriera: - E’ segno che non l’hai buttato bene, se no non sarebbe qui.
Il facchino scuotendo il capo e bofonchiando si ricarica il sacco e se ne va. Quando torna alla Regina un’altra volta, ritrova ancora il sacco con il gobbo e la cameriera tutta arrabbiata, che gli dice: - E poi non ho ragione che non lo sai buttare a fiume! Non lo vedi che è tornato un’altra volta?
- Ma se stavolta ci avevo legato pure un sasso!
- E tu legacene due! Guarda che se il sacco ritorna qua un’altra volta, non solo non ti pago, ma ti pigli un fracco di legnate.
Il facchino si riaccolla il sacco, va al fiume, gli lega due macigni e butta in acqua il terzo gobbo. Sta a guardare bene che non riaffiora, e torna alla Reggia.
Mentre il facchino saliva le scale, il Re gobbetto saliva di casa.
Il facchino lo vede, pensa: «Dannazione! Il gobbo è scappato un’altra volta; ora quella strega mi vorrà anche bastonare!». Gli prese una stizza da mettersi a piangere; non ci vide più, agguantò il gobbo per il collo e gridò. – Ah boia di un gobbo, non ti basta che t’ho buttato tre volte nel fiume! T’ho buttato con un sasso e sei tornato a galla, t’ho buttato con due e ancora ritorni! Ma che ci hai l’anima a rovescio? Ora te l’accomodo io, - e cominciò a stringergli la gola finché non gli uscì fuori un palmo di lingua. Poi se lo prese in collo e dritto dritto andò a buttarlo al fiume con quattro massi legati ai piedi.
Quando la Regina seppe che anche suo marito aveva fatto la fine degli altri tre gobbi, coprì il facchino di regali: quattrini, pietre preziose, prosciutti, cacio, vino. Non ci stette molto a pensarci su: si sposò il suo innamorato di prima e da quel giorno visse felice e contenta.
Larga la foglia, stretta la via,
Dite la vostra che ho detto la mia.
IL SOLDATO NAPOLETANO
Tre soldati avevano disertato il reggimento e s’erano dati alla campagna. Uno era romano, uno fiorentino e il più piccolo era napoletano. Dopo aver girato la campagna in lungo e in largo, li colse il buio mentre erano in un bosco. E il romano che era il più anziano disse:
-Ragazzi, non è giro da mettersi a dormire tutti e tre; bisogna far la guardia un’ora per uno.
Cominciò lui, mentre gli altri due, buttati i sacchi per terra e srotolate le coperte, si misero a dormire. Era quasi finita l’ora di guardia, quando dal bosco uscì un gigante.
-Che stai a fare tu qua?- chiese al soldato.
E il romano senza neanche guardarlo in faccia:-Non ho da render conto a te.
Il gigante gli si fa addosso, ma il soldato, più svelto di lui, caccia la sciabola e gli taglia la testa. Poi prende la testa con una mano, il corpo con l’altra e va buttare tutto in un pozzo. Ripulisce la sciabola ben bene, la rinfodera, e chiama il compagno che gli doveva dare il cambio. Ma prima di svegliarlo pensò: “ Meglio che non gli dica niente, se no questo fiorentino si mette paura e scappa”. Così quando il fiorentino, svegliato, gli chiese:- S’è visto niente? – Lui rispose:- No, no, è tutto calmo, - e andò a dormire.
Il fiorentino si mise di guardia, ed ecco anche che anche a lui, proprio quando stava per finire la sua ora, si presentò un gigante uguale all’altro e gli domandò:- Bè, che stai a fare qui bello?- e lui:- Non ho da render conto ne a te ne a nessuno.
Il gigante gli s’avventa contro, ma il soldato fa più presto di lui e gli stacca la testa dal corpo e butta tutto nel pozzo. Era venuta l’ora del cambio e pensò: “ A quel fifone napoletano è meglio che non gli dica niente. Se sa che qui succedono cose di questo genere, taglia la corda e buona notte al secchio”.
Difatti quando il napoletano gli chiese:- T’è successo niente?- gli rispose:- Niente; puoi stare tranquillo,- e andò a dormire.
Il soldato napoletano se ne stette di guardia per quasi un’ora, e il bosco era tutto silenzioso. A un tratto si sente un passo tra le fronde ed esce un gigante.- Che stai a fare, qui?
- E a te che importa?- fece il napoletano. Il gigante alzò su di lui una mano che l’avrebbe schiacciato come una frittata, ma il soldato più svelto di lui alzò la durlindana e gli staccò il capo di netto. Poi lo prese e lo buttò nel pozzo. Ora avrebbe dovuto svegliare di nuovo il romano, ma invece pensò: “ Prima, voglio vedere un po’ di dove veniva quel gigante>>. E si cacciò nel bosco. Scorse una luce e s’avvicinò a una casetta, mise l’occhio nel buco della serratura e vide tre vecchiette accanto al fuoco che discorrevano.
- E’ suonata mezzanotte e i mariti nostri non si vedono,- diceva una delle vecchie.
- Che gli sia successo qualcosa?- diceva un’altra.
E la terza:- Quasi quasi ci sarebbe da andargli un po’ incontro che ne dite?
- Andiamo subito,- disse la prima. – Io prendo la lanterna che fa vedere fino a cento miglia lontano.
- E io,- fece la seconda, - prenderò la spada che a ogni giro stermina un esercito.
E la terza:- E io il fucile che riesce a d ammazzare la lupa del palazzo del re.
- Andiamo,- e aprirono la porta.
Il napoletano con la sua salacca era lì dietro lo stipite che le aspettava. Uscì la prima, con la lanterna in mano e il soldato, zunfete!, la fece restar secca senza nemmeno farle dire <<amen>>. Scese la seconda e, zunfete!, andò a far terra da ceci. Scese la terza, e zunfete pure alla terza.
Il soldato ora aveva la lanterna, la spada e il fucile di quelle streghe, e volle subito provarli: “vediamo se è vero quel che stavano a dire queste tre rimbambite”. Alzò la lanterna, e vide che cento miglia lontano c’era un esercito schierato con le lance e gli scudi a difendere un castello, e sulla loggia del castello c’era una lupa incatenata con gli occhi fiammeggianti. – Leviamoci una curiosità,- disse il soldato. Alzò la spada e le fece fare un giro in aria. Allora prese il fucile e sparò alla lupa che morì sul colpo.
- Ora voglio andare a vedere da vicino,- disse il soldato.
Cammina cammina, arrivò al castello. Bussò, chiamò, nessuno rispose. Entrò, fece il giro di tutte le stanze e non si vedeva anima viva. Ma ecco che nella stanza più bella, seduta su una poltrona di velluto, c’era una bella giovane addormentata.
Il soldato le si avvicinò, ma quella continuava a dormire. Dal piede s’era sfilata una pianella. Il soldato la raccolse e se la mise in tasca. Poi le diede un bacio e se ne andò in punta di piedi. Se n’era appena andato, quando la fanciulla si svegliò. Chiamò le damigelle che erano accanto, tutte addormentate anche loro. Anche le damigelle si svegliarono e accorsero. – L’incantesimo è rotto, l’incantesimo è rotto! Ci siamo svegliate! La Principessa s’è svegliata! Chi sarà stato il cavaliere che ci ha liberate?
- Presto,- disse la principessa,- affacciatevi alla finestra e guardate se vedete qualcuno.
Le damigelle s'affacciarono e videro l'esercito sterminato e la lupa stecchita. Allora la Principessa disse: -Presto, correte da Sua Maestà mio padre e ditegli che qui è venuto un coraggioso cavaliere, che ha sconfitto l'esercito che mi teneva prigioniera, ha ammazzato la lupa che mi faceva la guardia, e mi ha tolto l'incantesimo dandomi un bacio -. Si guardò il piede nudo e disse: - E poi, m'ha portato via la pianella del piede sinistro.
Il Re, contento e felice, fece mettere gli affissi per tutto il paese:
Chi si presenterà come salvatore di mia figlia, gliela darò in sposa, sia egli principe o straccione.
Intanto il napoletano era tornato dai compagni ed era già giorno. Li svegliò. - Perché non ci hai chiamato prima? Quanti turni di guardia ti sei fatti? Il napoletano di raccontare tutte quelle cose non aveva voglia, e disse: - Tanto non avevo sonno, sono rimasto di guardia io.
Passarono dei giorni, e al paese della figlia del Re non s'era ancora presentato nessuno a pretendere la sua mano come legittimo salvatore. - Come va questa faccenda? - si chiedeva il Re.
Alla Principessa venne un'idea: - Papà, facciamo così: apriamo un'osteria nella campagna, con letti per dormre, e mettiamo sull'insegna: Qui si mangia, beve e dorme per tre giorni gratis. Ci si fermerà tanta gente e sapremo certo qualcosa.
Così fecero, e la figlia del Re faceva l'ostessa. Ecco che capitano i tre soldati, affamati come lupi. Passano, cantando come facevano sempre anche se tiravano la cinghia, leggono l'insegna e il napoletano fa: - Ragazzi, qui si mangia e dorme gratis.
E i compagni: - Sì, stacci a credere! Ci scrivono cosi per gabbare il prossimo.
Ma s'era fatta sull'uscio la Principessa ostessina che disse loro di entrare, che quel che diceva l'insegna era vero. I tre entrarono e la Principessa servì loro una cena da signori. Poi si sedette al loro tavolo, e disse: - Be', che ci avete di nuovo da raccontarmi, voialtri che venite da fuori? Io, in mezzo a questa campagna, non so mai niente di quel che succede.
- Che volete che vi raccontiamo, sora padrona? - fece il romano. E così, facendo il modesto, le raccontò la storia di quando era di guardia e gli s'era presentato il gigante e lui gli aveva tagliato la testa.
- To'! - fece il fiorentino, - a me pure m'è successo così, - e raccontò anche lui del suo gigante.
- E voi? - disse la Principessa al napoletano, - non v'è successo niente?
I compagni si misero a ridere. - Che volete che gli sia successo? E un fifone quest'amico nostro, che se sente muovere una foglia di notte piglia la fuga e non lo trovate più per una settimana.
- Perché lo trattate così, poveretto? - disse la giovane, e insistette che raccontasse anche lui.
Allora il napoletano disse: - Se lo volete sapere, anche a me mentre voi dormivate, m'è comparso un gigante, e l'ho ammazzato.
- Bum! - fecero i compagni sghignazzando. - Se solo lo vedevi morivi dalla tremarella! Basta: non vogliamo sentire più nulla. Andiamo a letto, - e lo lasciarono solo con l'ostessina.
L'ostessina faceva bere il napoletano e lo faceva continuare a raccontare. Così lui, a poco a poco le raccontò tutto: delle tre vecchie, della lanterna, del fucile, della spada, e della bella fanciulla addormentata che lui aveva baciata, e le aveva portato via una pianella.
- E ce l'avete ancora questa pianella?
- Eccola qui, - disse il soldato, traendola di tasca.
Allora la Principessa, tutta contenta, gli diede ancora da bere finché non cadde addormentato, poi disse al garzone: - Portatelo in quella camera che ho fatto preparare apposta; toglietegli i suoi abiti e mettetegli vestiti da Re sulla sedia.
Il napoletano la mattina si svegliò e si trovò in una camera tutta d'oro e di broccato. Andò per cercare i suoi vestiti e trovò abiti da Re. Si pizzicò per assicurarsi che non dormiva, e visto che da sé non si raccapezzava, suonò un campanello.
Entrarono quattro servitori in livrea, con grandi inchini: - Altezza, comandi. Ha riposato bene. Altezza?
Il napoletano faceva tanto d'occhi: - Ma siete impazziti? Che altezza e non altezza? Datemi i miei panni che voglio vestirmi, e facciamola finita con questa commedia.
- Ma si calmi. Altezza, si faccia fare la barba, si faccia pettinare.
- Dove sono i miei compagni? Dove avete messo la mia roba?
- Adesso vengono, adesso avrete tutto, ma permetta che la vestiamo. Altezza.
Quando vide che non c'era altro da fare per toglierseli di torno, il soldato li lasciò fare: lo sbarbarono, lo pettinarono, e gli misero gli abiti da Re. Poi gli portarono la cioccolata, la torta e i confetti. Finito di far colazione disse: - Ma i miei compagni li posso vedere, sì o no?
- Subito, Altezza.
E fecero entrare il romano e il fiorentino, che a vederlo vestito in quel modo restarono a bocca aperta. - Ma, di', come ti sei mascherato?
- Ne sapete qualcosa voialtri? Io ne so quanto voi.
- Chissà cos'hai combinato! - dissero i compagni. -Chissà quante bubbole hai raccontato ieri sera alla padrona!
- Io per regola vostra bubbole non ne ho raccontato a nessuno, - disse lui.
- E allora come va questa storia?
- Vi dirò io come va, - disse il Re entrando in quel momento con la Principessa vestita del suo manto più prezioso. - Mia figlia era sotto un incantesimo e questo giovanotto l'ha liberata.
E tra domande e risposte, si informarono di tutto quel che era successo.
- Per questo, - disse il Re, - lo faccio sposo di mia fi-glia e mio erede. In quanto a voialtri due, non vi preoccupate. Sarete fatti Duchi, perché se non aveste ammazzato gli altri due giganti, mia figlia non sarebbe stata salvata.
Furono fatte le nozze tra l'allegria generale.
Mangiarono pane a tozzi
E una gallina verminosa,
Viva la sposa, viva la sposa.
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